Tutto cominciò tre anni anni fa, quando il colpo della mia espulsione da Golder era ancora forte nel mio cuore, ma già stavo reagendo e prendendo le contromisure, pensando al futuro quasi di continuo, con furore. Il progetto Exit.bio stava prendendo forma, con cicatrizzanti conversazioni con mio fratello, a fumare a Roma sotto il pergolato di un bar nel freddo moderato del loro Natale, cui seguivano a Torino virulente discussioni nella cucina dell’appartamento sotto il mio — che avevo appena comprato e adibito a ufficio — con la socia che ci ha accompagnato nei primi passi.
Allora, novelli marinai, facemmo cambusa e studiammo a lungo nel buio dell’inverno il mare fuori dal porto, sfilando poi incerti gli ormeggi dalle bitte, ignari nel prendere il largo. Nel progetto Exit.bio ci stava molto del mio desiderio di usare il digitale per attività importanti e giochi non banali. Poiché ci stavamo dirigendo verso la memoria e le sue emozioni, volevo riprodurre un gioco di “memory” utilizzando come coppie di immagini i ricordi che ognuno di noi ha sul computer o sul cellulare. Un gioco che non esisteva ancora nel digitale, che anche sul digitale servisse a generare conversazioni e storie.
Le tessere di cartoncino azzurro del gioco Ravensburger di Memory arrivarono un Santo Stefano dei primi anni ’60 in una scatola in montagna a Bousson, sulla gigantesca Chevrolet grigia degli zii targata ZH e con l’adesivo CH, una vigilia di Capodanno piena di neve. Il Natale loro lo facevano strada facendo, a Vercelli in pianura, dove lo zio comprava un intero prosciutto crudo, una gamba di maiale salata da poco, e lo caricava in macchina con moglie e due figli alla volta della Val di Susa. Arrivava quel prosciutto intero e io sentivo che arrivava l’America.
Lo zio, d’altronde, era l’unico che era stato in America, e così la raccontava a papà e mamma: sai quando lasci Torino e poi Settimo e arrivi a Chivasso? Vedi i capannoni bassi, la pianura padana che arriva? Beh, l’America è così. Un gigante, lo zio! Ho guidato là per lunghissime miglia, e la gran parte dell’America dove l’uomo ci ha messo la mano, è proprio come Chivasso arrivando da sud ovest: capannoni e strade. Un gigante, lo zio!
Il gioco Memory si giocava la sera dopo cena tra noi in famiglia, nessun estraneo, neanche la nonna. La mamma si era preparata, era seduta e allungata nel letto matrimoniale al piano di sopra, si passava un latte detergente sul collo, poi sulla fronte. Due cuscini dietro la schiena, si tirava su mentre qualcuno prendeva la scatola, le tessere delle coppie, e le rovesciava sulla trapunta pesante, sopra la traccia delle sue gambe un poco divaricate. Molte tessere stavano fra quelle, altre sopra, altre oltre. La luce batteva sul letto, ombra tutto intorno.
Papà si sdraiava sul suo letto, noi piccoli ci accucciavamo negli spazi che rimanevano. Mamma posava il cotone idrofilo usato sul tavolino da notte, e dava inizio al gioco, sollevando due tessere a caso. Poi toccava a quello alla sua sinistra, poi si continuava a girare, poi improvviso qualcuno si ricordava dove quella immagine fosse già apparsa, gli altri provavano a depistare il giocatore, ma se quello sollevava le tessere giuste, poi continuava fino a quando sbagliava.
A ogni tessera sollevata papà battezzava ciò che vedeva, poi mamma lo “raffinava” quasi sempre, poi lui cedeva e quindi addivenivano a un accordo sul nome assegnato. Da lì in poi quella tessera anche per noi era pagliaccio felice oppure pagliaccio babar, o pagliaccio riccio. C’erano tre pagliacci, quattro palle di natale con diversi aggettivi, donne bionde frizzanti, donne brune ingrassate, barche jazz e così via. Non ricordo che noi facessimo battesimi, ma sentivamo e felici condividevamo le loro fantasie. Come fosse la nostra Messa noi assorbivamo le loro storie, come mattoni calcinati dal sole e gettati nell’acqua ghermivamo ciò che c’era in loro per noi.
Le storie e il racconto — magari prima del sonno — sono un modo mica male per crescere dei figli. E con il digitale, nonostante il digitale, riproporremo, come minimo, lo stesso.
Sulla barca di Exit.bio il mare aperto ora ci ha accolto, e ora sappiamo sentire cosa il vento racconta battendo sulle vele.