1981. Zia Sisi fuma vicino a me sul sedile posteriore della 127. Papà fuma guidando, la mamma tossisce di fianco a lui discorrendo con Sisi di storie delle Valli. Stiamo andando a Torre Pellice, lungo la statale lentissima, i platani cui impiccarono i partigiani a sinistra, i campi coltivati dai cattolici a destra. Saliamo in valle per il funerale della nonna, mamma di mamma e della zia. Papà guida come sempre molto bene, prudente.
A Piscina ci ferma un vigile, o forse un carabiniere. Chiede i documenti, papà glieli sporge e gli dice qualcosa. Lui fa due passi indietro, e vede nel bagagliaio la corona di fiori e poi l’urna cineraria. Impallidisce, mormora qualcosa e ci lascia andare. Io mi imbarazzo per tutti, ma come cazzo si fa a fare un funerale così, portando la nonna nel baule della 127, e parlando intanto delle storie eterne delle Valli. Li odio questi valdesi, e più di tutto odio la loro incapacità di celebrare come si deve, la ritenzione anale di ogni emozione, l’assenza di pianto. Questo è quello che conosco di loro, e infatti rimasi stupito qualche tempo dopo quando per il matrimonio di Claudia si fece una festa nel prato del Convitto piena di gioia, c’era persino il sole e qualche bicchiere di vino (e il loro Signore la punì per questo, non crediate che non notò la sua gioia e non sentì con invidia la sua risata argentina).
Per fortuna al cimitero almeno c’è la mia sorella Laura, venuta con il suo futuro marito. La guardo, mi guarda, ci capiamo, stiamo in piedi vicini. L’operaio infila una leva di acciaio sotto la pietra di Luserna della tomba di famiglia. Un’enorme lastra, senza alcuna scritta o decorazione, lungo il muro di cinta. Sul muro qualche lapide con i nomi Coisson e Frache. Poi l’operaio scende nella cripta, non lo vedo ma dal rumore direi che fa posto all’urna, spostando qualche bara o chissà.
Mi guardo in giro. Il cimitero è come diviso in due zone urbane. Una parte è bassa, senza fiori e orpelli, calvinista. Un’altra è alta, si ergono le croci, svettano i monumenti, sono i crìn catòlic, sicuro. Fiori ovunque, quasi a sbeffeggiare gli altri.
L’operaio riemerge, si volta a guardare gli astanti. Papà non fuma, ma si morde i baffi. La zia prende l’urna e gliela porge, quello torna giù, dopo poco ritorna, riprende il palanchino, sistema la pietra, ecco fatto. Mamma si gira, fa per andare. La zia la ferma, prende un mazzo di fiori granata e dice ecco i colori della Lettonia. La Lettonia è dove la nonna poco più che ventenne emigrò per fare la lettrice di italiano, si innamorò perdutamente del nonno Samuel, che le causò dolori immensi. Mamma storce la bocca, nel gelo di quel mattino si sente il suono di quello che pensa della trovata della sorella.
Non ricordo nulla del ritorno, probabilmente siamo passati a dare un’occhiata alla casa di Torre. Né prima, né dopo, mi ha fatto piacere tornare a Torre Pellice, ma quando pochi anni dopo, pochissimi anni dopo, sei, ci siamo tornati a tumulare Zia Sisi, per fortuna c’era un carro funebre per lei e non l’urna nel bagagliaio, e poi con noi c’era Calcagno, direttore di Tuttolibri, che disse sommesso e coraggioso belle parole per la Zia sui padri lontani e sulla sua gioia di vivere, e quella volta sentii meno freddo.