Il passaggio dall’analogico al digitale cambierà il nostro modo di raccontare le storie?
Noi contemporanei abbiamo la necessità di ridurre, selezionare, dare forma e senso all’enorme quantità di segni che stipiamo nelle nostre memorie digitali (fotografie, video, scritti, documenti). Sappiamo che dovremmo, ad un certo punto, eliminare per tracciare una storia che acquisti un qualche significato per l’altro, chiunque esso sia.
Da Giga a Mega, il nostro compito sarà recuperare la capacità del racconto: troveremo nuove stalle dove sederci in cerchio e raccontare storie. Perché i Giga, da soli, saranno il segno della bulimia dell’istante, del “qui ed ora”, di un eterno presente che non produce storie e non sedimenta memoria. Dovremmo ricondurli a dei Mega dicibili, raccontabili.
Noi siamo una generazione di mezzo: testimoniamo il presente in digitale ma la nostra memoria individuale è tutta analogica. Ci portiamo dietro cassetti pieni di carte, pezzetti, fotografie, cartoline, lettere con grafie indecifrabili.
A tutti noi è successo, ad un certo punto della vita, di fermarci a raccontare storie dando nomi ai volti e narrando le relazioni degli uni con gli altri.
Generalmente è successo quando un figlio, nei primi anni di vita, ti ha chiesto com’era “quando eri piccolo” e prima della nanna cominciava il “mi racconti quella volta che”. Racconti reiterati, narrati ogni sera senza variazioni. Spesso usando fotografie di te bambino, della nonna giovane che rideva, della tua sorellina, adesso zia, che è stata piccola come una noce. Come te, bimba mia, era piccola come una noce. Certo. Non è sempre stata la zia, una volta era la mia sorellina e come te correva veloce e cadeva per terra.. guarda qui, in questa foto ha i cerotti sulle ginocchia. Era quella volta che.
Tutti noi, quando abbiamo svuotato la casa dei nonni, abbiamo trovato una scatola con le cartoline che abbiamo spedito dai nostri viaggi e dalle nostre vacanze. Le prime dalla scrittura incerta, le A e le O grandi e irregolari. Poi, via via, la grafia che si faceva adolescente e poi adulta. Un percorso spazio-temporale di vacanze, avventure, viaggi che in quella scatola accumulavano vita e ricordi. L’indirizzo, sempre lo stesso, e noi mittenti-nipoti che crescevamo e cambiavamo luoghi, firmando spesso con persone diverse al nostro fianco. Talvolta, nel ricordo, facciamo persino fatica a rammentare di chi fossero quelle firme accanto alle nostre, ma ricordiamo benissimo come, in quel momento, fossero importanti. Ci capita di non ricordare i nomi, però ricordiamo l’intensità. L’emozione e gli odori della vita che cresce.
Ci siamo trovati in una casa vuota di voci, piena di presenze, a decidere cosa tenere e cosa buttare. E ci siamo seduti per terra sfogliando ricordi e raccontando ai più giovani.
Quella volta che. Quando ero piccola. Qui era quando io e la zia giocavamo in montagna. Qui ero appena guarita dal morbillo. Mi ricordo che la nonna. Quale nonna, mamma? La mia nonna, la tua bis. Com’era giovane, com’era bella. Mi racconti di quella volta che. Guarda, ecco. In questa foto sbiadita ci sono i tuoi nonni giovani e forti. Io non ero ancora nata, loro ridevano davanti alla macchina. Non so se ridevano sempre, forse no. Però noi li abbiamo qui, ridenti e felici. A noi sono arrivati così. Ci piace immaginare quell’istante di risa e felicità come fosse per sempre. A dispetto della vita che si fa complicata. Quella foto felice è il motivo per cui ci sono io e , poi, il perché ci sei tu.
Perché siamo, in fondo, un po’ tutti un atto d’amore. Ci piace pensarlo. Ci piace raccontarlo ai più giovani. Abbiamo bisogno di tracciare fili sottili di felicità, nella vita che si fa complicata. Offriamo le nostre migliori risate, i nostri balzi bambini, il primo viaggio con tuo padre, amore mio. Eravamo belli, ci amavamo tanto e poi sei arrivata tu. E’ andata diversamente, in seguito, ma in questa foto ci sei tu, anche se non c’eri ancora.
Scegliamo i ricordi, perché i più giovani si sentano piantati nella terra, voluti ed amati fin da quando non erano neppure immaginati. Trasmettere memoria è un’atto d’amore. Poco importa se è tutto vero, come è andata dopo. L’importante è l’atto d’amore, il racconto, i fili da ricostruire. Sapere che non si è sulla terra per caso.
Poi capita -come mi è successo qualche giorno fa — di parlare con Fart (nome di fantasia, lei ci tiene alla privacy). Di ascoltare il suo racconto.
Somala, nata in Somalia. Scappata all’età di 12 anni con la famiglia: la casa incendiata, all’inizio della guerra civile. Un’adolescenza e un’età adulta in Italia. Studi, università, viaggi, percorsi molto simili ai miei: trasgressiva, libera, curiosa. Con lo zaino sulle spalle e la voglia di essere. Fart mi racconta di quando si è trovata a raccontare a suo figlio di quando era piccola. Senza memoria, perché era bruciata. Mi ha raccontato degli zii in Canada, Europa, Americhe che hanno rispedito, in forma digitale, le foto di quando era bambina. Le foto — quelle migliori — che ciascuno di noi mandava ai nonni, agli zii lontani che si sono salvate e sono state digitalizzate e restituite. Una memoria analogica salvata dalla fuga, dall’incendio, dal taglio delle radici. Restituita ai più giovani attraverso il viaggio, la diaspora. L’azzeramento. Il rientro.
Poi parlo con Paul (altro nome di fantasia), rifugiato politico dalla Costa d’Avorio. Giornalista, oppositore politico dell’attuale governo golpista ivoriano. Scappato in Tunisia — Libia — Italia dopo tre anni di carcere. Tre figli — 12 anni e 10 anni le gemelle — che non vede da 5 anni. Tutto intensamente raccolto nel suo Android: quei volti bambini che vede sullo schermo ma non sa quando potrà riabbracciare. Però Skype è tenerezza ed amore, parole e voci che tengono vivi.
Infine, Omar, del Darfur. 25 anni, una laurea in Economia Politica, attivista, un unico pezzo di carta portato con sé. L’unico pezzo di carta che testimonia il suo passato, ultimo documento sudanese prima che il Sudan lo respingesse rendendolo apolide. Carta, analogica. Carta che certifica che, prima, era già. Null’altro con se’, a parte la nostalgia e il suo bisogno — primario, fortissimo — di ricostruire pezzi di futuro.
Penso al diritto alla memoria, a quei fili e quel legame profondo che ciascuno di noi ha con la sua storia. Vera o verosimile, poco importa.
Penso al diritto che ciascuno di noi ha — ragazzo smarrito della terra — di raccontare ad un figlio di quelle risa e di quell’atto d’amore.
Penso, anche, che per molti di noi il digitale, vigliacca terra, salverà dall’oblio e dall’azzeramento del passato.
Sarebbe bellissimo ritrovarsi, tutti, in una stalla a raccontarci storie seduti in cerchio. Ciascuno con il suo device, il suo android, la sua scatola dei ricordi. Il suo bisogno di raccontare. Il futuro da seminare, piantato negli atti d’amore di ciascuno di noi.