Dicembre 2003, memorie di un decennio anomalo di Europa centripeta. Siamo nella capitale. Uffici centrali. Ho subito sentito acuto il loro bisogno di sembrare normali, conformi, lisci come pesci di fronte al giudizio. Consiglio di amministrazione convocato di fretta a causa delle truffe fiscali tentate dai colleghi. Mi presento nella sala con dieci minuti di anticipo per ambientarmi, e li trovo già tutti seduti ai loro posti: si aspettavano che arrivassi in ritardo come ogni italiano di cui hanno letto o che hanno conosciuto. E invece io sono già lì. Non sorridono, non parlano.
Ho dovuto assumere la presidenza del loro board, ero già il loro capo formale, e oggi devo diventare il loro capo sostanziale. Inizio con due minuti di anticipo. Non mi vengono sorrisi fino a che si conclude il racconto di quel tentativo di evasione fiscale e si concorda di concludere, con punizioni per pochi e certo nuove nomine. Compagni del grande Nord, non fatelo mai più. Facce imperturbabili, ma io sento il loro sollievo nel sentire il pugno del comando forte e saggio che loro piace, cui delegano volentieri.
La riunione si conclude, qualcuno porta una bottiglia e si bevono a stomaco vuoto un paio di aquavit ma per fortuna nessuno questa volta si mette a cantare. Si complimentano per il segno del comando che hanno sentito. Esco con Sten — il nuovo capo appena nominato — nel gelo di dicembre, sono le quattro ed è buio. Vorrei un cuscino e dormire, sono esausto.
Andiamo nella casa sul mare di Sten, guida nella pianura prima grigia della periferia americana della capitale e poi nel bianco di neve compattata dai mezzi sulle provinciali che costeggiano l’arcipelago. Poi Sten si ferma, mi invita a scendere vicino a una casetta rossa da cui esce un filo di fumo; entriamo, e sono sopraffatto da un odore di pesce affumicato in legna umida di bosco che riporta ricordi che non sapevo di avere. Non l’ho mai sentito, ma me ne ha raccontato la mamma sovente, suoi ricordi di Lettonia: il salmone viene pescato e subito affumicato con i rami presi lì attorno.
Sten sceglie, paga, usciamo con un lungo cartoccio con il pesce, due minuti e siamo a casa, accende subito la sauna, posa il pesce sul tagliere di legno, mette le patate a bollire. Abbiamo chiacchierato in macchina, ma appena arrivati lì lui tace, è a casa sua, dove vive ormai single, non è abituato a parlare a casa sua.
Sudiamo in silenzio a lungo nella capanna sul mare, poi con due passi ci tuffiamo nel buio del Baltico, e poi finalmente si mangia.
Il salmone è grigio, con venature rosa, un gorgeous filet che spazzoliamo svuotando una bottiglia di whisky torbato. E viene il tempo del racconto, di sua figlia che non lo fa mai giocare con il nipote, della sorella che vive vicino ma non si fa mai vedere perché non ha bisogno di lui, nessuno osa aver bisogno degli altri. I colleghi svedesi che lo hanno ripreso perché dava le sue camicie da stirare a una donna ad ore, invece di dimostrarsi indipendente e fare tutto da solo.
I suoi racconti mi danno i brividi, perché ci ritrovo i fili essenziali della educazione ricevuta dalla mamma baltica — nata sull’altra sponda appena — che noi figli ci ha cresciuto sempre indipendenti, capaci di fare da soli tutto, poco amabili.
La casa e la vita di Sten sono solide e tanto indipendenti, tutte indipendenti, ma lui è solo. Sdraiato sulla plancia di legno del letto con un piumino leggero nel freddo che sale dal mare mi chiedo se è il mare, questo mare infido, tanto roccioso e tanto poco profondo — quando tempesta i marinai ne vedono il fondo — che li ha fatti così. E mi chiedo se staranno in Europa, e perché. Nella casa sul mare di Sten mi addormento, e così per tanti anni ho viaggiato e imparato, insegnato e comandato, in un’Europa che anche lassù ci provava ad essere unita, in un viaggio da riprendere oggi con grande urgenza.